La natura di Gilardi non è né igienica né confortevole. Non è un alibi ma è un rito. Non è una natura vittoriosa, non è una natura violenta né selvaggia, né felice. È una natura miserabile in perdita. Una natura di mele cadute, di zucche da orto di periferia quando i fiori felici dei piselli e dei fagioli, le zinnie e le dalie sono sfiorite e i frutti sono stati raccolti, una natura di pannocchie di granoturco quando i papaveri di giugno, il grano di luglio e le pesche di agosto se ne sono andate e restano nei campi sterpi e radici sconvolte, una natura in perdita. Il rito di Gilardi è come il rito nelle grotte di Lascaux: è il rito per la paura della perdita, per invocare una vittoria nella quale non si crede, per invocare una certezza che non c’è nelle nostre mani e si cerca chissà dove, per invocare coraggio davanti alla morte ricostruendo con le nostre povere mani l’avvenuta della sconfitta.
Ettore Sottsass jr.
(estratto dalla rivista Domus, dicembre 1966)
Interno del “Deposito d’Arte Presente” 1968.
Opere di Merz, Boetti, Zorio, Pistoletto, Anselmo, Piacentino, Calzolari.
L’opera di Gilardi è direttamente interessata a due situazioni abbastanza ben definite: la Natura, soggetto del suo lavoro, e la Tecnologia, nelle tecniche che usa. La tecnologia ha condizionato dopo tutto il nostro modo di comprendere la Natura. Ha forse reso la Natura più temibile di quanto non fosse prima. Più temibile non soltanto perché – secondo McLuhan, – ha resuscitato Pan alienandoci da una confortevole e meccanicistica comprensione dell’ambiente in cui viviamo (Darwin dopo tutto fece in modo che le scimmie ci apparissero quasi amiche) ma anche perché semplicemente ci ha rimossi dalla natura, facendoci concentrare nelle città e limitando le nostre relazioni con la terra né adocchiata fuori dai finestrino di un’automobile o ad una salita in montagna con lo skilift.
(Estratto dall’articolo Arcadia Tecnologica, Art & Artist, gennaio 1968, Londra)
Macchina per discorrere.
1963
Osservando le ” tavole” delle macchine di Gilardi è evidente l’uso di una espressione pseudotecnica, mediata da un linguaggio parascientifico: in esse la ricercatezza rappresentativa (schematizzata, indagante e ingenua) del particolare ha il valore di una necessità: il bisogno di far apparire gli studi di queste sue macchine più veri e meno utopici. Da tutto questo risulta una possibile realtà legata alla possibile funzione della sua macchina: è proprio questa realtà che interessa a Gilardi.
Voglio dire che non lo si può accusare di fantascienza, ma casomai di vita “fattascienza” Infatti nella sua posizione di non scienziato e di non artista sl può permettere agevolmente di evitare la minima concessione a tutto quello che non ritiene coerente con il suo pensiero. che è avanzato quel tanto da fargli inserire la sua stessa coerenza nella possibile sfera dei difetti: dunque è alieno da sterili dogmatismi ad oltranza. La sua freddezza nella considerazione “ghestaltica” che può urlare contro il sentimento è relativa e paragonabile di vita o di morte, bollettini per uomini che vivranno o moriranno. Penso che per giocare ad analizzare il meccanismo di tutto un “sistema di vivere” sia necessario ben altro spazio e altre considerazioni: pertanto ci si limita alla constatazione che secondo Gilardi è già per natura un fatto positivo. Fu ciò che avvenne recentemente in una seduta del Congresso sulla psicoterapia di gruppo a Milano, quando su uno schermo vidi comparire alcune sue macchine del futuro; pochi ebbero la possibilità di considerarle, ma tutti indistintamente le constatarono: secondo Gilardi quello fu già il fatto positivo.
Clinio Trini Castelli – Designer, dal catalogo della mostra “Esposizione di macchine per il futuro” Torino, 1963