Annamaria Maggi 1996

Si è, allo stesso tempo, di fronte ad un paesaggio preistorico e ad uno tecnologico. La grotta con stalagmiti, dall’aspetto misterioso ed inquietante, percettivamente molto catturante, al punto da far dimenticare il mondo esterno, sostituendosi nella nostra mente, facendo confondere il reale con il virtuale, così come lo schermo e la scacchiera con piccole pedine/stalagmiti movibili fanno parte dell’installazione Survival, che Piero Gilardi ha recentemente allestito alla Triennale di Milano (in una versione ancora incompleta). Di questo lavoro percorreremo l’excursus tecnico e di pensiero che ha portato l’artista alla sua realizzazione. Ma la questione saliente è che questo lavoro propone un’attività interattiva con il pubblico, è possibile infatti toccando e spostando le stalattiti (quelle poste sulla scacchiera) impostare con la propria azione un modello di città che il computer assimila e sviluppa simulando modelli di possibili evoluzioni biologiche. L’interazione non è solo far vivere l’opera, od una macchina, non è come schiacciare il pulsante dell’ascensore per arrivare al piano, l’interazione prevede un’influenza reciproca, un’azione in correlazione di reciprocità, o più semplicemente un lavoro in comune, un effetto raggiunto a causa di due elementi interagenti ed insostituibili, l’uno nell’azione l’altro nella rielaborazione. La classica esperienza visiva dell’arte tradizionale viene in questo modo ad essere arricchita di nuovi elementi. Per la fruibilità attiva dell’opera è indispensabile attivare sensorialmente non solo la vista, ma anche il tatto e l’udito, in una sorta di psico-attivazione sensoriale totale.
È stato, quello di Gilardi, un gesto di rottura con il mondo della tradizione artistica, con la dimensione meramente rappresentativa dell’arte, un gesto duchampiano che l’artista ha modificato dalla semplice fruizione passiva ad una attiva: in questo modo l’intelligenza umana collabora con l’intelligenza artificiale, la quale, nelle sue rielaborazioni, cerca di ricreare i processi di trasformazione dei sistemi biologici. Si attiva quindi un processo di interazione biunivoca nel senso che la tecnologia è dentro la vita e per la vita, una sorta di accostamento alla tecnologia in maniera organica, dove finalmente ci è permesso di entrare nella rappresentazione che la cultura umanistica non ci ha mai permesso, diventando così consumatori attivi di tecnologia…
Come è nata l’idea di progettare Survival? Nel 1993. in collaborazione con l’artista Christian Laroche, montai alla Biennale di Venezia un’installazione che ci lasciò molto insoddisfatti. Si trattava di Black out, un ambiente sonoro nel quale il pubblico doveva poter risentire le proprie voci rimodulate con tonalità affettive, armoniche ed empatiche. Ma direi soprattutto l’insufficiente testaggio del sistema fonico digitale creò un’interazione equivoca e confusa. Il disagio provato mi spinse a cercare delle nuove ipotesi da realizzare, fino a che mi arrivò l’inout concettuale seguendo un dibattito sull’arte e la metropoli tecnologica. Per cui, mi dissi, nonostante la proliferazione caotica della metropoli essa rimane il centro delle attività umane, luogo di incontri e di conflitti; cosa può fare quindi l’arte se non creare delle interfaccia comunicative all’interno della filigrana tecnologica delle reti e delle transazioni urbane, dare cioè corpo ai bisogni, al desiderio ed alle differenze, suscitare la consapevolezza dell’esigenza di una trasformazione ininterrotta? È chiaro il tuo intento di legare l’arte alla tecnologia ed alla vita, ritieni quindi che fare arte oggi significhi tutto questo? L’espressione “co-varianza”, usata da Franco Torriani per identificare concettualmente la nuova condizione dell’arte, ben caratterizza la mia esperienza; posso dire che ciò significa che l’opera non è più un sistema bloccato di segni e simboli, elaborato individualmente, ma è un processo metaforico nel quale agiscono non meno di due soggetti: l’artista-programmatore ed un fruitore. Sicuramente questa definizione distingue il “nuovo fare artistico” da quello degli anni ’70 ed ’80 che affermava invece l’autonomia dell’opera come prodotto puro della creatività del singolo. Ritengo quindi, come sostiene anche l’elaborazione teorica di Edmond Couchot, che nei dispositivi automatici e virtuali di produzione delle immagini vi è lo strumento cardine di questa svolta qualitativa dell’arte, a questo concetto aggiungerei che la mia è una tecnologia ispirata alla biologia, un processo che tende alla creazione di artefatti naturali. Infatti nella performance di Survival ci sono degli algoritmi genetici che costituiscono la “regole” per l’evoluzione degli automi cellulari, incarnati nelle stalagmiti-torri, componenti di un mutevole progetto di metropoli salvifica.
(Intervista di ANNAMARIA MAGGI a PIERO GILARDI 1996)