Archivio storico

La natura di Gilardi non è né igienica né confortevole. Non è un alibi ma è un rito.
 Non è una natura vittoriosa, non è una natura violenta né selvaggia, né felice. È una natura miserabile in perdita. Una natura di mele cadute, di zucche da orto di periferia quando i fiori felici dei piselli e dei fagioli, le zinnie e le dalie sono sfiorite e i frutti sono stati raccolti, una natura di pannocchie di granoturco quando i papaveri di giugno, il grano di luglio e le pesche di agosto se ne sono andate e restano nei campi sterpi e radici sconvolte, una natura in perdita. Il rito di Gilardi è come il rito nelle grotte di Lascaux: è il rito per la paura della perdita, per invocare una vittoria nella quale non si crede, per invocare una certezza che non c’è nelle nostre mani e si cerca chissà dove, per invocare coraggio davanti alla morte ricostruendo con le nostre povere mani l’avvenuta della sconfitta.

Ettore Sottsass jr.
(estratto dalla rivista Domus, dicembre 1966)

 

Entrando nell’ecosfera portatile di Piero Gilardi, non possiamo veramente chiamare in causa la realtà empirica di quanto stiamo sperimentando. Quella che viene trasformata nel tempo, comunque è la sensazione di certezza che le più grandi pretese dell’uomo ed i più profondi misteri della natura sono veramente lontani l’uno dall’altro. Forse questa esperienza ci avvicina di un passo alla comprensione della ragione per cui noi desideriamo ardentemente intravedere nelle opere d’arte qualche prova che le nostre vite interiori sono tanto sfaccettate, tanto infinitamente costrette, quanto l’ordine in cui esse pretendono di affondare le loro più profonde radici. Senza l’evidenziazione di qualche legame inconscio fra la natura e noi, ci pare di dimenticare che la nostra esistenza non è nient’altro che il vago riflesso di quanto abbiamo prodotto lungo la via.
Forse perché la natura stessa fa molto più del semplice creare o distruggere, il nostro ruolo di iniziati nel giardino simulato di Gilardi deve anche coinvolgere lo stabilirsi del contatto con quella parte di noi stessi che più di ogni altra è in rapporto armonico con la natura.
Gilardi, dopotutto, sembra voler dire che l’aver cura del mondo nel quale viviamo e la ricerca della felicità sono due modi di avvicinare lo stesso problema – una cosa sulla quale non avremmo mai dubitato se non fossimo stati scacciati dal giardino qualche millennio fa.

(Estratto da catalogo della mostra alla Sperone – Westwater gallery. New York 1991)

 

Negli ultimi otto anni Gilardi si è dedicato al PAV Parco Arte Vivente, la sua impresa più ambiziosa fino ad oggi. Alla fine del 2008, Gilardi ha presentato il work in progress, e lo scorso anno è stata avviata una serie di programmi educativi. Risultato di uno sforzo collaborativo che ha ideato e progettato e di cui egli è attualmente direttore artistico, PAV è un’impresa monumentale, situato in uno spazio verde di circa 6 ettari nel cuore della zona Lingotto di Torino.
 Circondato da alti palazzi di abitazioni e da edifici industriali, il PAV comprende un nuovo museo e un centro studi con laboratori, workshop e spazi per mostre temporanee e permanenti, tra cui Bioma, un’installazione, multi-galleria e permanente, di nuovi media creata da Gilardi. I terreni sono riservati a distese di earth art e a installazioni esterne ecologicamente impegnate da parte di un gruppo internazionale di artisti invitati, con un’attenzione particolare per i talenti giovani ed emergenti.
 Questa stagione, il PAV ospita una varietà di mostre, installazioni all’aperto e spettacoli (i dettagli sono disponibili sul sito web del parco, www.parcoartevivente.it). 
Nelle opere più ambiziose della sua carriera lunga quasi 45 anni, Bioma e PAV, l’artista offre una esperienza unica della natura nel contesto dell’arte. Rimanendo fermo nell’idealismo della sua giovinezza così come allo spirito innovativo di Arte Povera, ma con l’aggiunta dei mezzi dell’età elettronica, Gilardi riesce a fondere arte e vita.

(Estratto dall’articolo Organic Technology su Art in America, giugno 2010. New York)

 

La sensibilità artistica di un artista rispetto ai nuovi linguaggi emergenti dell’arte, la spregiudicatezza nell’esperienza, la convinzione della fecondità del rapporto col mondo per lo sviluppo della vocazione artistica, sono le caratteristiche del ruolo rivestito dall’artista Gilardi, nell’informazione sui nuovi territori dell’arte contemporanea informazione ottenuta dal vivo dei suoi viaggi in Europa e in America, di cui egli dà notizia in forma diaristica, sempre “facendo la valigia e pensando alla strada”, dove “la strada” si rivela il “che fare” dell’arte indagato nella molteplicità dei luoghi della sua incubazione, e riferito dal viaggiatore ai compagni di ricerca rimasti a casa, in una sorta di “internazionale dell’arte”. Così Gilardi fa conoscere in Italia i lavori di Long, Dibbets, Flanagan, Beuys, Van Elk, Nauman, Hesse, Wiley. Così contemporaneamente presentandosi nella quotidianità del viaggio e introducendo il lettore nel cuore, quotidiano anch’esso, di varie altre esistenze dedicate all’arte (l’incontro di Gilardi con un altro artista è quasi sempre anche l’incontro con un corpo, un carattere, una dimora, uno stile di vita: la notazione insomma dei vari possibili modi di “abitare nell’arte”), Gilardi realizza nella sua prassi e rende effettiva tramite il racconto l’utopia della comunità estetica come figura / anticipatrice della comunità politica. Dai suoi itinerari, Gilardi ricava l’impressione di un dato comune nella nuova attitudine dell’arte internazionale, che egli definisce “sensorialità entropica”. Si sente forte e determinante la presenza di una nuova attitudine mentale a vivere in modo individuale “dentro l’entropia”. Ma è il concetto di “arte microemotiva” – espresso in uno scritto pubblicato nel 76 da Celant come ancora inedito – quello con cui Gilardi riassume la situazione internazionale dell’arte, a partire dal ‘67: “Il riferimento che mi ha guidato nel distinguere tutte queste esperienze da altre analoghe per il meccanismo o la suggestione formale, ma di senso diverso, è il superamento della staticità del dato primario; tutto il lavoro, infatti, esprime un’idea di ‛micromovimento’ libero e individuato.

(estratto dal catalogo della mostra Identité italienne Centre George Pompidou, Parigi)

 

È intorno al 1985 che Gilardi riprendeva le sue attività propriamente plastiche, dopo un’escursione nell’arte terapia in differenti ospedali psichiatrici italiani. Introduce nuove tecnologie nel suo percorso per l’elaborazione di un progetto di mega-scultura tecnologica, intitolato Ixiana, che doveva assumere la forma di una bambola bionica gigante, all’interno della quale i visitatori avrebbero provato a esercitare la loro creatività su equipaggiamenti interattivi che mettono in gioco il corpo e i sensi. Questo progetto troppo costoso non fu realizzato, ma Gilardi proseguì il suo lavoro nella stessa direzione, precisamente con un’installazione intitolata Inverosimile, dove lo spettatore può circolare tra tre filari di vigne artificiali che reagiscono a suoi movimenti. 
Come altri artisti di questa tendenza interessati alla tecno-ecologia, come Jurgen Claus e le sue Sun Sculptures o Otto Piene e il suo Sky Art, Piero Gilardi valorizza le qualità insostituibili del nostro ambiente utilizzando le forze della natura come modello e le nuove tecnologie per farne risaltare la forza d’espressione artistica. Che si tratti di una simulazione o di una ricreazione di elementi naturali o di una combinazione di fattori naturali e artificiali, noi ci troviamo sempredi frontea un tentativo di riconciliazione fra due termini apparentemente contraddittori: progresso scientifico o tecnologico da una parte e sopravvivenza biologica e spirituale dell’uomo dall’altra.

(Estratto dall’articolo Expression & Signe su Psychologie Medicale. Parigi 1993)

 

L’opera di Gilardi è direttamente interessata a due situazioni abbastanza ben definite: la Natura, soggetto del suo lavoro, e la Tecnologia, nelle tecniche che usa. La tecnologia ha condizionato dopo tutto il nostro modo di comprendere la Natura. Ha forse reso la Natura più temibile di quanto non fosse prima. Più temibile non soltanto perché – secondo McLuhan, – ha resuscitato Pan alienandoci da una confortevole e meccanicistica comprensione dell’ambiente in cui viviamo (Darwin dopo tutto fece in modo che le scimmie ci apparissero quasi amiche) ma anche perché semplicemente ci ha rimossi dalla natura, facendoci concentrare nelle città e limitando le nostre relazioni con la terra né adocchiata fuori dai finestrino di un’automobile o ad una salita in montagna con lo skilift.

(Estratto dall’articolo Arcadia Tecnologica, Art & Artist, gennaio 1968, Londra)

Che si tratti di natura-natura o natura-uomo tutto per Gilardi passa attraverso la riflessione sul senso di morte che pervade l’attualità, ed egli sembra indicare come compito dell’arte quello di ripercorrere tutti i momenti che hanno caratterizzato la modernità fino a divenire l’unico strumento in grado di possedere ancora una comunicazione universale.
La tecnologia che caratterizza il suo lavoro fa i conti con la morte del soggetto e la morte della natura, ben consapevole che solo un atto esterno, l’impulso di un circuito elettronico, potrà porsi come speranza di vita per l’intero sistema vivente, anche se all’interno di un evidente artificio. La linfa della natura e il sangue dell’uomo sono stati sostituiti da circuiti elettronici in grado di darci una vita, un’illusione di vita, più eccitante e seducente del reale quotidiano.
Il sogno bionico che l’artista coltiva lo pone al centro di un universo la cui cifra sarà data da una creatività diffusa e l’atto artistico non sarà più il momento emblematico della creazione di un individuo, ma sarà riposto nella interrelazione fra tutti gli individui. Interrelazione che condurrà l’arte a porsi come comunicazione globale, linguaggio capace di dare ai soggetti la possibilità di un dirsi al cui centro giocherà il ruolo del valore la tecnologia. In queste opere l’elemento tecnologico non viene vissuto come elemento straniante, in grado solo di prevalere sul soggetto annullandolo, ma mezzo che proprio al soggetto può venire in aiuto per allargare sempre più la sua possibilità di linguaggio e di comunicazione. Un bit che equivale ad un soffio di vita.

(Estratto da una recenzione su Flash Art maggio 1989)