Nonostante le dichiarazioni contrarie di molti addetti ai lavori (fra cui, purtroppo, devo annoverarmi anch’io), bisogna prendere atto che le nuove tecnologie digitali sembrano avere pochi e marginali effetti nel campo dell’arte. A novembre si è tenuta alla Triennale di Milano una mostra dal titolo “Generazione media”, tappa di un lavoro ideato da Paolo Rosa (e realizzato grazie al Progetto Ciovani del Comune e all’Accademia di Brera) che si propone di “costituire un osservatorio a Milano sul rapporto fra tecnologie e percorsi artistici giovanili”. L’indagine degli allievi di Rosa, e l’esposizione che ne è scaturita, dimostra che i giovani artisti milanesi sanno usare il video con competenza e anche con qualche idea, che hannocominciato a utilizzare i più diffusi programmi digitali di manipolazione delle immagini (tipo Photoshop), che alcuni di loro conoscono almeno in parte il dibattito estetico e filosofico sorto intorno al digitale. Ma di uso di vere e proprie “nuove tecnologie”, per esempio di installazioni multimediali, interattive, o come dir si voglia, neanche l’ombra. Ci sono ragioni di tipo economico che spiegano questo fatto: le tecnologie necessarie per realizzare installazioni di quel tipo sono ancora relativamente costose, e quindi non alla portata dei giovani. Tuttavia, temo, ci sono altre ragioni attinenti all’immaginario e al sistema di convinzioni di chi opera nel campo dell’arte, ragioni che per me sono molto più preoccupanti. Quello che temo è che i giovani artisti non si siano sottratti alla fascinazione dell’opera d’arte come esito supremo e desiderabile dell’attività artistica: l’arte dovrebbe continuare, anche con l’uso delle nuove tecnologie, a produrre “opere” da contemplare, esecrare, sezionare, amare, odiare, ma sempre opere”. Per chi, come me, è più interessato all’uso “rivoluzionario” delle nuove tecnologie in campo artistico, dovrebbe però essere chiaro che o queste ci aiutano a riportare l’arte alla sua originaria funzione di produzione e di diffusione di “senso” sociale, o non sono nulla. Per questo ho tanto maggiore rispetto e interesse per chi, venendo dal mondo dell’arte ufficiale, con la A maiuscola, e avendo conseguito in quel campo risultati lusinghieri, anche dal punto di vista del mercato, da vari anni persegue un progetto diverso, quello appunto di un’arte che proponga esperienze e non opere. Parlo di Piero Gilardi, che con Tommaso Tozzi, Mario Canali, Giacomo Verde, i Giovanotti Mondani Meccanici, Massimo Contrasto e pochi altri, rappresenta in Italia l’arte interattiva. Il suo ultimo lavoro, General Intellect, propone al partecipante un’esperienza su di un argomento attuale e scottante, quello della città multietnica. Il partecipante è invitato a indossare, sulla base di diverse proposte musicali, uno fra sei dispositivi traccianti che lo identificano con una particolare cultura etnica (africana, araba, indocinese, latino americana, slava, europea). Una volta entrati nello spazio virtuale, il corpo così equipaggiato diventa un mouse che permette di viaggiare in una città e di essere associati, in base all’etnia scelta, a un palazzo che ha le caratteristiche architettoniche di quella cultura. Ma a questo punto ognuno ha la possibilità, toccando con il cursore che lo rappresenta i palazzi altrui, di “ibridare’ proprio palazzo, trasformandolo da simbolo di una specifica cultura in un artefatto misto che rispecchia il grado di interazione e di combinazio ne fra le culture. La conclusione di questa esperienza ludica è una “nuova identità” etnico-culturale, rappresentata da un cono di luce che investe il corpo reale del partecipante e da una nuova musica. Nessuna “bellezza” da contemplare, nessuna “estasiestetica” da cui farsi attraversare, ma un gioco, un’esperienza coinvolgente, gradevole ma produttrice di spaesamento e di dubbio. Un’installazione da collocare, propone Cilardi, non in un museo o in una galleria, ma in luogo metropolitano anonimo come una fiera, uno shopping center, un areoporto.
“VIRTUAL” dic. 1997